Vi avviso fin da subito: questo non è un articolo sulla struggente storia d’amore di Raffaello e la Fornarina. Questa storia è stata, infatti, creata ad hoc secoli dopo la morte dell’artista, prevalentemente durante il Sette-Ottocento, per alimentare il mito romantico che era sorto intorno alla sua figura. Chiunque, pertanto, si aspetta un articolo del genere rimarrà deluso. In questo excursus sulla storia della Fornarina mi propongo, piuttosto, di indagare le possibili ipotesi identificative riguardo la donna raffigurata, e gli eventuali rapporti con Raffaello e la cerchia di artisti e mecenati collegata alla curia papale di Giulio II e Leone X, il tutto seguendo un’attenta documentazione che possa guidare il lettore attraverso le possibili letture dell’opera, senza farsi distrarre da ipotesi troppo semplicistiche o immaginifiche.
Per ragioni di complessità critica mi troverò costretto a semplificare un po’ le cose, ma vi prometto di essere preciso e puntuale nella descrizione della storia dell’opera e della sua genesi compositiva.
Andiamo dunque alla scoperta di uno dei dipinti più enigmatici dell’artista urbinate.
In principio fu Vasari
Le vicende sentimentali di Raffaello non sembrano, a differenza di quelle michelangiolesche, filtrare da testimonianze autografe, quanto più dalle sue biografie fiorite in epoca successiva. La prima, e archetipica, tra queste resta senza ombra di dubbio quella contenuta nell’edizione giuntina (Firenze, 1568) delle Vite di Giorgio Vasari, che si impose in brevissimo tempo come una delle fonti più autorevoli sull’esperienza artistica di Raffaello. In verità, come spesso accade in Vasari, le biografie sono velate da suggestioni, voci di corridoio, informazioni errate. Vasari è un osservatore attento ed esperto, ma ciò non scalfisce la sua volontà di creare un’opera che abbia anche una discreta valenza letteraria, e per questo motivo si lascia andare in racconti aneddotici spesso privi di un reale riscontro nei fatti. Non fu esente da questa contaminazione nemmeno la Vita di Raffaello d’Urbino pittore et architetto, nella quale l’aretino racconta che: “Fu Raffaello persona molto amorosa et affezzionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro. La qual cosa fu cagione che, continuando i diletti carnali, egli fu dagl’amici, forse più che non conveniva, rispettato e compiaciuto. Onde facendogli Agostin Ghigi, amico suo caro, dipignere nel palazzo suo la prima loggia, Raffaello non poteva molto attendere a lavorare per lo amore che portava ad una sua donna; per il che Agostino si disperava di sorte, che per via d’altri e da sé, e di mezzi ancora, operò sì che appena ottenne che questa sua donna venne a stare con esso in casa continuamente, in quella parte dove Raffaello lavorava, il che fu cagione che il lavoro venisse a fine” (1). Ciò che ci interessa, in questo racconto condito dal gossip, è proprio il fatto che l’Urbinate si sia lasciato distrarre da una donna, e che proprio questa fosse poi andata a vivere con lui. Potrebbe trattarsi della Fornarina? Una lettura basata sul gioco delle probabilità potrebbe suggerirci un parere affermativo, ma come ho detto bisogna sempre diffidare da quanto ciò che afferma Vasari non è verificabile in maniera oggettiva. Un altro indizio sulla vita sentimentale di Raffaello l’aretino lo racconta più avanti, quando parla delle cause che portarono l’artista alla morte: “Raffaello, attendendo in tanto a’ suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro” (2). A questo si aggiunge, in un passo successivo, la notizia che Raffaello, sentendo la fine vicina, “Fece testamento e prima, come cristiano, mandò l’amata sua fuori di casa e le lasciò modo di vivere onestamente” (3).
Dunque grazie alla testimonianza vasariana riusciamo a capire quale fu l’inizio della leggenda del Raffaello amatore, cosa che certamente fu, ma della quale non abbiamo prove a sufficienza per poter credere ciecamente al racconto dei biografi. Ciò che tuttavia spicca all’occhio è forse il dato più lampante: la totale assenza di qualsiasi riferimento alla Fornarina o alla sua identità.
Vasari, pur attentissimo nel descrivere le opere pubbliche dell’artista, non ne fa mai menzione. Questo vale sia per la Fornarina intesa come dipinto, sia per la donna che Raffaello ritrasse.
Sembra quasi essere una presenza irreale, materializzatasi solo nel momento del ritratto.
Un discorso simile vale per le fonti coeve, che sembrano non trovare alcuno spazio per ricordare una donna che invece, qualora il suo rapporto con Raffaello fosse stato manifesto, avrebbe dovuto essere inserita in ogni racconto.
Un amore clandestino, un raffinato epititalamio o un intento moraleggiante?
Questo indizio ci porta a formulare una domanda: dobbiamo pensare che si trattasse di una relazione clandestina?
Analizzando la situazione dell’ambiente artistico romano, composto in prevalenza da uomini di età variabile e, molto spesso, celibi, potremmo in effetti considerare che una relazione sentimentale al di fuori del matrimonio sarebbe potuta essere vista con diffidenza. Persino i papi, teoricamente inattaccabili, venivano criticati con livore per i propri costumi sessuali. Non immaginiamo cosa si potesse sussurrare, allora, per quanto riguardava le storie sentimentali degli artisti.
Passioni a tinte forti, relazioni omosessuali, rapporti carnali con prostitute ed amanti…
Insomma agli abitanti di Roma non mancavano certo gli argomenti per spettegolare, soprattutto su quanto facevano gli individui più in vista della società come i nobili ed i membri della curia.
Questo poteva certamente valere anche per gli artisti e per i loro collaboratori, ma più un particolare per quelli che portavano il peso di una fama importante, come del resto era quella di Raffaello negli anni in cui si fa risalire il ritratto della Fornarina. La posa della modella, l’ambiguità della scena e la pervadente sensualità che anima la composizione ha fatto pensare che si tratti di un dipinto destinato ad essere osservato in privato, lontano dagli occhi indiscreti di adulatori e chiacchieratori di borgata. Tutto questo non può che avvalorare la tesi secondo la quale la Fornarina sia un’amante segreta, una donna tanto misteriosa da non aver tramandato nemmeno il suo nome, eppure tanto famosa grazie alla storiografia che ha creato per lei un ritratto romantico e passionale.
Sono state molte le ipotesi volte a svelare la sua identità, e nonostante i vari nomi proposti dalla critica non si avrà mai – se non grazie al ritrovamento di documenti inediti – conferma su chi sia la misteriosa ragazza ritratta dal maestro.
Eppure, noi dobbiamo addentrarci un po’ in questa indagine degna di un poliziesco per provare ad identificare la Fornarina. L’ipotesi oggi più accreditata la identifica in Magherita Luti, figlia di un fornaio di contrada Santa Dorotea, in rione Trastevere, da cui proverrebbe il soprannome di “Fornarina”. Secondo lo storico dell’arte e restauratore Antonio Forcellino potrebbe trattarsi dell’ultima amante di Raffaello, una donna di umili origini che assisté il maestro fino agli ultimi istanti di vita, come sembra testimoniare Vasari. Tuttavia questi elementi non bastano per proporre un’identificazione certa, dunque all’epoca dell’aretino non vi era ancora una chiara idea su chi potesse essere la misteriosa amante dell’Urbinate. Un aiuto venne, a chi si arrovellava in questo gioco, da una copia dell’edizione giuntina delle Vite (Firenze, 1568), di proprietà del notaio Giuseppe Vannutelli di Roma, nella quale un anonimo lettore ha scritto, accanto al passo in cui si parla dell’amore di Raffaello per questa donna, la parola latina Margarita, derivazione nominale della parola margarita, utilizzata per indicare la perla. Ciò vuol dire che già nella seconda metà del secolo, quasi cinquant’anni dopo la morte dell’artista, iniziavano a spuntare le prime congetture sull’identità della giovane. Secondo il ragionamento di questo anonimo annotatore, allora, la donna amata da Raffaello si chiamerebbe Margherita poiché essa porta una perla agganciata al proprio turbante: dunque il riferimento al gioiello sarebbe la chiave per comprendere il nome della ragazza, secondo un procedimento tanto amato dagli artisti e dai committenti del Rinascimento. Un ulteriore indizio a conferma di ciò si trova in un documento pubblicato da Antonio Valeri nel 1897, nel quale si ricorda di come una tale Margherita, figlia del “fu” Francesco Luti da Siena – un certo Franco fornaro senese fu realmente censito a Roma all’epoca di Raffaello, anche se non ci sono ulteriori prove per collegarlo alla Luti – si fosse ritirata in stato di vedovanza presso il convento di Sant’Apollonia in Trastevere in data 18 agosto 1520. Questo ha spinto il filologo e storico dell’arte Giuliano Pisani, che riporta tali documenti, ad ipotizzare che Margherita, rimasta vedova di Raffaello (i due potrebbero aver contratto un matrimonio segreto), avesse deciso di ritirarsi in convento per il resto della vita appena quattro mesi dopo la morte del suo amato. Non che ovviamente Pisani condivida questa teoria, ma secondo lui potrebbe aver influito per confermare l’identificazione della Fornarina agli occhi di chi voleva assolutamente vedere in lei Margherita Luti. Questo anche per via dell’anello che la donna ritratta da Raffaello porta all’anulare sinistro, simbolo – come vedremo tra breve – matrimoniale per eccellenza.
Nonostante ciò le parole dell’aretino risultano piuttosto ambigue, in quanto l’espressione “vivere onestamente” era di solito riferita ad una prostituta che, per una ragione o per un’altra, smetteva di professare il “mestiere” e iniziava a condurre una vita onesta. Questo, aggiungendo un ulteriore tassello al nostro discorso, ci porta ad una seconda domanda: che si trattasse di una cortigiana?
In effetti quando l’incisore Domenico Cunego realizzò una copia della Fornarina nel 1772 per il pubblico inglese, egli intitolò l’opera “Raphaelis Amasia, vulgo La Fornarina”, divenendo di fatto il primo ad utilizzare il soprannome con il quale l’opera sarebbe poi stata conosciuta. Quello che però risulta interessante è ben altro elemento, ovvero la parola “amasia”, parola latina traducibile più o meno come amante, il che potrebbe a pensare una differente identificazione per la ragazza ritratta. Difatti la traduzione letterale di quanto scrive Cunego è “L’amante di Raffaello, detta volgarmente la Fornarina”; in questo i cultori delle storie romantiche e passionali vollero interpretare il titolo intendendo che la donna raffigurata fosse un’amante dell’artista e venisse soprannominata Fornarina, poiché figlia di un fornaio, in italiano antico “fornaro”. Ma essendo quella di Cunego un’incisione volta a presentare un’opera, e dunque a fungere un po’ da una moderna cartolina, Pisani ha ipotizzato che in realtà il titolo dell’incisione vada letto in questo modo: “L’amante di Raffaello, detta volgarmente la Fornarina”, in cui la parola “amasia” stesse a significare che in realtà il maestro dipinse una cortigiana, e che dunque la parola “amante” fosse il titolo dell’opera, e la parola “Fornarina” indicasse il soprannome con cui quella cortigiana era nota per le strade di Roma, secondo quanto veniva detto dal “volgo”, il popolino indentificato dal lemma latino “vulgo”. Il termine Fornarina così smetterebbe di indicare l’umile figlia di un panettiere per intendere, in realtà, il nome d’arte di una prostituta d’altro rango. Questo sarebbe suffragato dal fatto che termini come “fornaia”, “impastare”, “infornare” e simili altri derivati dal lessico della panetteria erano invece utilizzati popolarmente dagli scrittori del Cinquecento per indicare per via metaforica le pratiche connesse all’attività sessuale con le prostitute.
A tal proposito la storica dell’arte Amélie Ferrigno ha formulato un’ipotesi suggestiva, identificando la modella della Fornarina in Francesca Odescalchi, cortigiana d’alto borgo con la quale il ricco banchiere senese Agostino Chigi, committente e amico dell’Urbinate, strinse un’appassionata relazione durante gli anni romani. Relazione sancita dalle nozze celebrate il 28 agosto 1519 da papa Leone X in persona, evento che assicurò a Raffaello la commissione della Loggia di Psiche a Villa Chigi. L’intento del Chigi era proprio quello di celebrare, attraverso la storia di Amore e Psiche narrata da Apuleio nell’Asino d’oro, la propria storia con la Odescalchi. Secondo questa tesi, quindi, il ricco banchiere avrebbe commissionato a Raffaello un’altra opera, ancor prima di coinvolare a nozze con la sua amante, ovvero proprio La Fornarina. La Ferrigno parte dalla concezione che un ritratto di tale sensualità potrebbe in effetti suggerire la vita passata della sposa, quella vita che ella stava per offrire totalmente al futuro marito, rinunciandovi una volta per tutte; a suggello di questa ipotesi ci sarebbe l’anello che la giovane indossa all’anulare sinistro, proprio quello dedicato alla fede nunziale. L’anello sembrerebbe, inoltre, ornato con una pietra lavorata per assumere la forma di una stella, elemento presente nello stemma della famiglia Chigi (fig.1), poi occultato da un velo di pittura in una redazione successiva (forse da Giulio Romano).

Questa, a mio avviso, sembra essere la teoria interpretativa più probabile, specialmente facendo riferimento ai rapporti tra gli artisti e la committenza agli inizi del XVI secolo; mi è sembrato infatti inverosimile, considerata l’identificazione in Magherita Luti, che Raffaello – uno degli artisti più in vista di Roma – abbia scelto di dedicare tempo e materiali al ritratto di una delle sue amanti. Non vi sono né documenti d’archivio che potrebbero attestare questa pratica da parte dell’Urbinate né tanto meno prove artistiche, come bozzetti o disegni preparatori, che andrebbero ad insinuare qualche dubbio. Difatti la pratica di dedicare ritratti alle proprie consorti o amanti si affermerà solo in epoca successiva, in piena età Barocca, quando Rubens ritrarrà più volte la giovane moglie per puro diletto personale. Una pratica del genere, per un pittore del Rinascimento maturo, è da considerarsi altamente improbabile, ancor più se considerato il fatto che un artista come Raffaello lavorava esclusivamente su commissione, e le opere di carattere privato, dipinte per omaggiare amici o per puro diletto, occupano una parte davvero esigua della sua produzione, né poi hanno per soggetto una donna misteriosa. Ciò che invece sembra sicuro, al di là dell’identità della modella, è che l’Urbinate la dotò di alcuni oggetti di scena, come il gioiello con la perla appeso al turbante (fig.2), notabile già in dipinti come il Ritratto di Maddalena Strozzi (1506 c., Galleria degli Uffizi) e La Velata (1512-18 c., Galleria palatina di Palazzo Pitti).

Per quanto riguarda le possibili relazioni con quest’ultima, analizzando la fisiognomica della modella è possibile che Raffaello abbia ritratto la stessa donna in due versioni diverse, ma da qui a considerare entrambi i dipinti come ritratti di Margherita Luti è davvero un atto di fede.
Tuttavia, prima di abbandonare questa annosa questione interpretativa, è mio dovere informare il lettore di una diversa tesi iconografica avanzata dal Pisani. Analizzando l’opera, anche alla luce delle moderne indagini radiografiche, è venuto fuori che il dipinto fu realizzato in due tempi differenti (l’uno ascritto a Raffaello, l’altro a Giulio Romano), mentre in origine sullo sfondo doveva apparire un paesaggio di ispirazione leonardesca, poi mutato in quello attuale. E cosa rappresenta la quinta che fa da sfondo alla Fornarina? Un intrico di vegetazione nel quale è possibile riconoscere ben tre piante diverse, ovvero il mirto, il melo cotogno e l’alloro. Sul mirto è stato scritto e detto tantissimo, ma una cosa nota anche a chi non si occupa di storia dell’arte è il suo legame con la dea Venere; nella religione romana, infatti, questa pianta era attributo iconografico della dea dell’amore e, per via della sua natura di sempreverde, era considerata una pianta simbolo della fedeltà coniugale. Come rimando all’amore nunziale il mirto venne utilizzato sempre più spesso dagli artisti del Rinascimento, denotando quasi sempre una scena collegata o ispirata da un evento matrimoniale. Un esempio illustre di questo utilizzo è la Primavera di Botticelli, scena mitologica ambientata in un giardino di mirto, probabilmente commissionata per celebrare le nozze tra Lorenzo di Pierfrancesco de’Medici e Semiramide Appiani (puoi recuperare la sua storia qui: https://musageteartpress.wordpress.com/2020/03/23/bentornata-primavera/).
Il melo cotogno era invece considerato, nella Grecia antica, una pianta collegata ad Afrodite, tanto che i suoi frutti erano chiamati con il nome del “pomo d’oro” donato da Paride alla dea (ovvero chrysómelon); anche in questo caso si trattava di una pianta collegata con la simbologia matrimoniale e la fedeltà dei coniugi. Sull’alloro, come per il mirto, le parole si sprecano. Pianta sacra al dio Apollo, e dunque attributo per antonomasia dei poeti, potrebbe collegarsi anche ad Afrodite/Venere in quanto era la divinità che poteva concedere agli autori fama imperitura per i loro versi, tanto da essere invocata – al posto di Apollo – nel proemio del De rerum natura da Tito Lucrezio Caro.
Pisani, inoltre, sostiene che la postura della Fornarina presenti altri elementi derivati dal classicismo, in particolare dalle Veneri pudiche, a loro volta derivate dal modello della Afrodite Cnidia di Prassitele, scultura del V secolo a.C. Difatti anche la modella di Raffaello, come la divinità classica colta dopo il bagno, è intenta a coprirsi il seno con la mano destra ed il pube con la sinistra, in un gesto che in apparenza trasmette pudicizia, ma che in realtà finisce per aumentare la tensione erotica della scena. Essendo la Venere una delle sculture più copiate dell’antichità, ed essendone state ritrovate numerose copie nel sottosuolo romano, non è assolutamente da escludere che Raffaello, conservatore delle antichità cittadine, non si fosse ispirato ad esse in maniera consapevole.
L’idea di raffigurare la Fornarina come una Venere pudica troverebbe una risposta in una particolare concezione filosofica espressa da Marsilio Ficino, la medesima che animerebbe la Primavera botticelliana. Si tratta, ancora una volta, della Venus humanitas (o Venere celeste), incarnazione dell’amore spirituale che spinge gli spiriti amanti alla ricerca della verità attraverso la bellezza. Una Venere che dunque, assumendo le sembianze di un’affascinante modella, riuscirebbe a trasmettere il suo insegnamento proprio attraverso la sublime bellezza, divenendo così vincolo di un chiaro messaggio dagli intenti morali e pedagogici.
Una scena intrisa d’erotismo

Ma veniamo, finalmente, alla descrizione empirica dell’opera.
Siamo all’esterno, nell’ansa di un giardino coperto dalle fronde, un hortus conclusus dove solo l’occhio dell’artista può indagare. Davanti a noi una fanciulla misteriosa ci offre la sua bellezza.
Ha i seni scoperti, e tenta di occultarli tirando su un drappo leggero e trasparente, che invece lascia intravedere tutte le sue forme, creando un gioco di linee e vorticosi cambiamenti armonizzati dal pennello. Il dito indice ed il medio sfiorano il seno sinistro, forse a simboleggiare la maternità (4). Sulle gambe si stende una coperta rossa, forse messa lì per indicare il giaciglio, oppure per coprirsi dalla frescura dell’alba. Sembra infatti che la scena sia ambientata, come suggerirebbe la luce alle spalle dei cespugli, alle prime luci del giorno; forse si tratta di un momento successivo all’amplesso, dove gli amanti rimangono svestiti per ammirare i propri corpi e pascersi della loro bellezza. La ragazza viene accarezzata da una luce tenue, che modella la sua carne senza essere brutale, disegnando zone d’ombra e di luce in base ad una logica coerente e ben studiata.
Il fondo vegetale, immerso nell’oscurità, funge da quinta scenica ed ha la funzione di esaltare la luminosità del corpo femminile, in modo da non lasciare alcuno spazio alla distrazione di chi osserva. Così facendo ci si può concentrare esclusivamente sulla modella, la vera protagonista dell’attimo dipinto. Alcuni elementi ci portano a considerarlo un ritratto dal vero, come ad esempio i diversi toni della pelle dei seni e del viso, i primi candidi per via del loro essere sempre coperti, il secondo più scuro a causa della luce solare; tuttavia, come sempre nei dipinti del tempo, Raffaello ha preso un corpo realistico e lo ha filtrato attraverso una serie di tipi ideali, in modo da addolcirne alcune cose e non cadere nel naturalismo più schietto. Non vi è una sola zona del dipinto in cui l’artista non abbia steso un velo di colore uniforme, sovrapponendo gli strati di pittura in maniera così magistrale da non lasciar apparire, almeno alla vista, i segni lasciati dal pennello.
Sul braccio destro la ragazza indossa un bracciale sul quale è sono incise le due parole a caratteri dorati: “Raphael Urbinas” (fig.3). Per Antonio Forcellino si tratta di un segno di possesso, o di esclusività della modella, che avvalora la tesi secondo la quale la Fornarina sia il ritratto di un’amante di Raffaello, mentre per altri studiosi è solo un espediente raffinato per firmare l’opera.

Ma oltre il corpo ben tornito, le mani morbide e curate, i seni sodi e chiari, è il viso a rendere questo ritratto tra i più affascinanti della produzione raffaellesca. Un volto racchiuso in un turbante dorato, il quale lascia appena intravedere poche ciocche di capelli scuri, interrotte dal gioiello che pende sulla fronte (fig.2). Questo è composto da uno zaffiro, un rubino di taglio quadrato e una perla. Secondo Pisani si tratta di elementi in qualche modo collegati a Venere: lo zaffiro è simbolo di purezza e fedeltà in amore, il rubino rosso rimando al colore della passione amorosa, la perla ricordo della nascita della dea, nata da una conchiglia proprio come questa pietra.
La ragazza accenna appena un sorriso, descritto più dalle ombre che dall’inarcamento delle labbra, mentre gli occhi dalle iridi luminose risaltano per il contrasto di colore intorno alle orbite. Verso la coda dell’occhio, quasi in corrispondenza della palpebra, l’occhio si rigonfia leggermente. Forse si tratta di un espediente per lasciar trasparire una passione ardente, l’attesa palpitante di donarsi al proprio amato (fig.4).Tutto concorre nell’attirare l’attenzione verso questo corpo meraviglioso, trasfigurato in una luce che sembra ammantarlo in un incantesimo irripetibile, quello della vita immortalata per sempre nella tela.

Storie di conservazione
Il ritratto della Fornarina, iniziato verosimilmente intorno al 1518, si trovava ancora in casa di Raffaello quando questi, il 6 aprile 1520, morì. Era sicuramente incompiuto per via delle differenze stilistiche venute alla luce dopo le indagini riflettrografiche, il che ha fatto supporre l’intervento di un secondo pittore, probabilmente Giulio Romano. Già alcuni anni dopo la morte dell’artista il dipinto, nella sua forma definitiva, veniva citato nell’Oratorio di San Pietro Martire di Rieti, in una scena del Giudizio universale affrescato dal veronese Bartolomeo Torresani tra il 1552-56.
Il che fa dunque supporre la conoscenza da parte dell’artista dell’opera raffaellesca, non sappiamo se per osservazione diretta o grazie ad una copia. Tuttavia la prima notizia certa sul dipinto risale al 1595, quando viene ricordato nelle collezioni di Caterina de Nobili Sforza, contessa di Santa Fiora, in una lettera dell’ambasciatore asburgico a Roma, il quale scrive al suo signore Rodolfo II d’Asburgo per informarlo riguardo i pezzi della collezione che avrebbero potuto suscitare il suo interesse, ed essere così acquistati per la sua raccolta di Praga. Tra questi viene appunto ricordato anche: “Una donna nuda, ritratta dal vivo, mezza figura di Raffaele” (5).
Nel febbraio 1597, invece, un inviato del duca di Mantova si recò presso la contessa per tentare – ed è già il secondo tentativo in due anni – di acquistare alcune opere della sua collezione. Nella raccolta vi erano molte opere celebri, e tra queste fu vista anche: “[…] la mezza Venere nuda, con occhi, et capelli negri,nel braccio sinistro della quale in un bracciale è scritto RAPHAEL VRBINAS” (6). Questa testimonianza è molto importante poiché, dalla mezza figura nuda dell’ambasciatore austriaco, adesso questo dipinto viene identificato in una Venere; una storia del genere l’inviato del duca poteva averla appresa soltanto dalla padrona di casa, donna di elevata cultura, che alla fine non accettò alcuna offerta di vendita per via della consolazione che quelle opere portavano nella sua vecchiaia. Ancor di più è da sottolineare che, quando questa figura femminile fu identificata per la prima volta, lo fu con il nome di Venere e non con una storia fantasiosa sugli amori del suo artefice.
Quando la contessa morì, nel 1605, la Fornarina entrò a far parte delle collezioni del genero, Giacomo Buoncompagni, figlio illegittimo di papa Gregorio XIII (1572-85); in casa Buoncompagni la vide un giovane Fabio Chigi (futuro papa Alessandro VII), il quale dedicò all’opera un capitolo dei suoi Chisiae familiae commentarii (1618), intitolato Praecipua quaedamde Raphaele Sanctio.
Riporto integralmente il testo e la traduzione di Pisani: “Illiussane meretriculae non admodum speciosam tabulam ab ipso effictam vidimus Romae in aedibus ducis Boncompagni, figura iustae magnitudinis, revincto sinistro brachio tenuiligula, in eaque aureis literis descripto nomine Raphael Vrbinas“ (“Del-la sua (= di Raffaello) giovane concubina vedemmo a Roma, in casa del duca Buoncompagni, una tavola non particolarmente bella, dipinta di sua mano, una figura di grandezza naturale, con al braccio sinistro un’armilla sottile, su cui a lettere d’oro è scritto il nome Raphael Urbinas”) (7). La testimonianza del Chigi sarebbe, dunque, la prima a considerare la Fornarina come un’amante di Raffaello.
Nel 1624 l’opera è documentata a Palazzo Barberini, senza che ci sia dato sapere come avvenne questo passaggio; a palazzo è ricordata in un volume del conte perugino Girolamo Teti, il quale scrive, descrivendo le opere ivi conservate: “Per primo (tra i pittori) ci viene incontro Raffaello e ci offre la vista di una tavola notissima, in cui dipinse la figura a mezzo busto di una donna bellissima, resa animata dai lineamenti e dai colori con così grande arte che davvero la diresti balzar fuori dalla tavola non solo viva, ma in grado di far dolcemente svenire chi incautamente la osservasse” (8). In questa occasione, però, non viene fatta menzione alcuna rispetto all’identità della donna.
Differentemente, nel 1657 e nel 1664, si inizia a fare strada sempre più l’ipotesi che la donna fosse l’amante di Raffaello, come raccontato da guide ai palazzi di Roma e da libelli.
Ancora nel 1766 l’opera veniva indicata come il ritratto della donna amata da Raffaello, e perciò i visitatori stranieri, ascoltando queste storie e leggendo queste fonti, iniziarono ad identificarla come “Raphael’s mistress” (“L’amante di Raffaello”) oppure come “Baker’s daughter” (“La figlia del fornaio”, in riferimento al soprannome). Con l’incisione di Cunego (1772) ed una maggiore conoscenza dell’opera da parte del pubblico anglosassone iniziò a prendere vita la leggenda della storia tra Raffaello e la Fornarina, culminata in celebri dipinti di epoca neoclassica e romantica come quelli di Jean-Auguste-Dominique Ingres e Giuseppe Sogni (fig.5 e 6).
Conclusioni
In chiusura di questo prolisso e non semplice percorso, spero che al lettore siano divenute chiare un po’ di cose. Innanziutto la totale infondatezza della storia tra Raffaello e la Fornarina, relazione che esiste soltanto nella letteratura romantica e la critica da essa derivata, senza essere supportata da nessuna fonte verificabile. Se, prestando fede a Vasari, l’Urbinate si accese di passione per una donna negli ultimi anni della sua vita, tanto da lasciarle persino una modesta eredità, dobbiamo piuttosto supporre che questa donna forse una cortigiana con la quale il maestro strinse una relazione, rapporto di cui non ci è pervenuta nessuna testimonianza oltre quella vasariana.
In secondo luogo, alla luce dell’ambiente intellettuale che circondava l’artista rinascimentale, dovrebbe essere ormai noto che raramente questo artista lavorava solo per diletto e senza un significato nascosto tra le pennellate della sua pittura. Anche nel caso di ritratti privati o disegni eseguiti per amici intimi, vi era quasi sempre un gioco intellettuale da decodificare, in modo da esercitare le capacità di chi osservava.
Dunque è assai plausibile che la Fornarina sia uno di questi ritratti. All’apparenza un bellissimo ritratto di donna, che tuttavia nasconde nel profondo una complessa simbologia in attesa solo di essere svelata.
Spero che queste righe siano state utili per una comprensione più profonda di una delle opere più affascinanti del divino Raffaello.
di Pasquale Di Nota
NOTE
(1) In Giorgio Vasari, Vita di Raffaello d’Urbino pittore et architetto, p. 635
(2) Idem, p. 639
(3) Idem, p. 639
(4) L’ipotesi è riportata in Giuliano Pisani, Le Veneri di Raffaello (Tra Anacreonte e il Magnifico, il Sodoma e Tiziano, p. 114
(5) Idem, p. 99
(6) Idem, p. 100
(7) Idem, p. 100-101
(8) Idem, p. 101
Bibliografia
Antonio Forcellino, Raffaello. Una vita felice. Laterza, Roma-Bari, 2005
Amélie Ferrigno, Une nouvelle identification de la Fornarina de Raphaël. Le peintre, la belle et le banquier, (Les Cahiers d’Histoire de l’art n°11, oct 2013). Consultabile su Academia.edu
AA.VV., Atlante della pittura. Maestri Veneziani. Rinascimento e Barocco in Italia. Maestri Spagnoli. Istituto geografico De Agostini, Novara, 1963
Claudio Strinati, Raffaello. Giunti, Firenze, 2016
Giorgio Cricco e Francesco Paolo Di Teodoro, Itinerario nell’arte. Dal Gotico internazionale al Manierismo. Zanichelli, Bologna, 2017
Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti. Newton Compton, Roma, 2014. Prima edizione origianale presso Giunti, Firenze, 1568
Giuliano Pisani, Le Veneri di Raffaello (Tra Anacreonte e il Magnifico, il Sodoma e Tiziano. Studi di Storia dell’Arte 26. Ediart, 2015. p. 97-122. Consultabile su Academia.edu